Confesso che ancora oggi ho un incubo ricorrente. E sono quasi certo che anche voi lo avete: la vostra versione personale.
Sono tornato sui banchi di scuola. Sono totalmente impreparato, e questa volta la professoressa decide di usare la tombola: a ogni persona corrisponde un numero. Gustando con gusto sadico il clima di suspense che si diffonde nella classe, la professoressa lentamente introduce la mano nel sacchetto dei numeri, e poi estrae… il mio numero. Il famigerato 23. Tutti si voltano verso di me (sono nell'ultimo banco). Come destinato al patibolo, mi alzo. E a questo punto, in uno stato di panico, mi sveglio.
Perché la scuola deve essere un luogo di terrore? Oppure di noia? Non lo dico per criticare gli insegnanti. Anzi, nutro una grande ammirazione per questa categoria di lavoratori. Ne conosco parecchi. Conosco le loro motivazioni sincere, le difficoltà a barcamenarsi fra allievi disattenti, colleghi difficili, genitori invadenti, burocrazia infinita, programmi e test sentiti come un corpo estraneo. E conosco anche la loro stanchezza.
La mia domanda invece è: deve proprio essere così? Ma non preoccupatevi. A tutte le diagnosi della scuola che già esistono non voglio aggiungere anche la mia. Parto solo da una constatazione. Si impara davvero a scuola? Mi ricordo di quando, molti anni fa, portai il mio figlio maggiore al suo primo giorno di scuola. Entrò con entusiasmo. Si sedette al banco, e mi domandò: "Quando si incomincia a imparare?". Non vedeva l'ora. Lo lasciai con quella domanda. Dopo qualche ora tornai a riprenderlo. Era torvo. Mi guardò negli occhi e mi diede un pugno in pieno petto. Non mi sentii di dirgli, coraggio, sarà così per i prossimi diciott'anni.
A questo punto voglio presentarvi Stefano Viviani. E' un professore della scuola media, ed è l'insegnante che tutti avremmo voluto avere. Che abbia un talento per insegnare è indubbio, ma lui non è uno che dà spettacolo o che usa tecniche esotiche. Sono convinto che quello che fa lui lo possono fare tutti. E' questo il bello. Il modo lo vedrete descritto in dettaglio nelle prossime pagine. Ma è presto detto: i suoi allievi, lui, li mette in contatto con se stessi.
Anziché dire loro che cosa devono sapere e che idee devono avere, li invita a ragionare tutti assieme su un tema. Per esempio l'amicizia. O la giustizia. O gli immigrati. O qualsiasi altra cosa. Gli allievi sono invitati a dire ciò che pensano sul tema scelto. Viviani pone loro delle domande, li stimola, soppesa le loro risposte e le coordina, ma soprattutto ascolta. Non giudica mai, non dà voti, non prescrive, non assegna lezioni (in altri momenti si torna ai metodi tradizionali, ma con un altro spirito). Gli allievi sanno che saranno tutti ascoltati. Anche i più timidi, anche quelli che credono di non aver niente da dire. Anche quelli che non hanno studiato. Anche quelli più disastrati da vicende familiari più grandi di loro. Pensano, dicono la loro, portano le loro esperienze. Sono vivi e attenti. Gli insegnanti dell'ora successiva li trovano in questo stato. E rimangono molto sorpresi. Che cosa è successo?
E' successo che quando impieghiamo una nostra funzione, sia essa la mente o il corpo o l'immaginazione, quando impariamo i vari modi in cui la si può usare, ci sentiamo vivi. E la prossima volta che siamo invitati di nuovo a farlo, lo facciamo volentieri. Stefano Viviani ha creato la scuola dove si va volentieri. Anche gli insegnanti, se adottano queste tecniche e soprattutto questi atteggiamenti, finiscono per stancarsi meno e ritrovare l'amore per il proprio lavoro. E alla fine si scopre che gli allievi vanno meglio anche con i test Invalsi.
Il punto di partenza di Viviani è una grande fiducia nei ragazzi. Lui sostiene che hanno tutti (più o meno nascosti) grandi interrogativi esistenziali, e che, se messi alla prova, si impegnano con passione per affrontarli. Così sono pronti a usare l'intuizione, l'immaginazione, tutte le risorse interiori di cui dispongono. Lui insegna loro a pensare con la propria testa e a fidarsi delle proprie intuizioni. Essere intelligenti, ed essere bravi a scuola, non significano necessariamente saper pensare bene, a fondo, e in maniera autonoma. Questa è un 'arte che la scuola spesso si dimentica di insegnare, fornendo invece una gran massa di pensieri già pensati e digeriti da altri. E' una tavola imbandita di piatti ricchi e variegati - ma agli allievi il cibo piace di più quando se lo preparano da sé.
Siamo a scuola, dunque si potrebbe credere che il pensiero è al centro. Tuttavia un pensiero che funziona al meglio non è mai astratto dalla realtà, ma confluisce con le emozioni, con l'esperienza personale, con il mondo in cui si vive e i progetti che si hanno. Quindi non mancano esercizi che hanno più a che fare con le relazioni e l'empatia: per esempio, toccare un compagno a occhi chiusi, scoprirlo in questo modo sorprendente. Si lavora anche con la visualizzazione. Viene data attenzione al silenzio: che ai ragazzi, quando non viene imposto d'autorità, piace moltissimo. Sono vari gli elementi chiamati in gioco: mai il pensiero da solo, per non incorrere nel divorzio fra cuore e cervello, un pericolo che tutti purtroppo conosciamo. Chi non è in contatto col proprio mondo interiore finisce per non aver fiducia e stima di sé. Sentirsi a proprio agio con le proprie emozioni, con le proprie idee e fantasie, sapere come farne il miglior uso, è il fondamento di come conduciamo la nostra vita, di quanto siamo autonomi, delle scelte che facciamo, dei rapporti che abbiamo con gli altri. E' infine, anche un modo di essere contenti e di stare bene.
E qui c'è una distinzione fondamentale da fare: quella fra apprendimento di superficie e apprendimento profondo, due diversi modi di studiare. Nell' apprendimento di superficie il cuore non partecipa. Si impara memorizzando, e il criterio di base è quello della prova: si deve superare un esame; il sapere viene concepito come un valore che può essere misurato. Questo sapere è esteriore e strumentale. Esteriore, perché, anche se è acquisito come una capacità a disposizione dello studente, non è sentito come parte di sé. Strumentale, perché il solo scopo qui non è di sapere, ma di superare un esame.
L' apprendimento profondo è il contrario: è interiore, nel senso che chi lo vive sta partecipando di persona a quel processo. Capisce il soggetto che sta studiando, lo penetra e lo fa suo, se ne appassiona, e lo può applicare alla sua vita e collegarlo ad altri apprendimenti precedenti. Soprattutto, ciò che apprende viene sentito in rapporto col nucleo più intimo del suo essere. E questo gli apre l'accesso al suo mondo interiore. In questo caso non si studia per avere un bel voto.
Perché ci sia un apprendimento profondo bisogna che l'allievo sia partecipe. Bisogna che si esprima, e che sia visto e ascoltato. E' proprio ciò che succede nelle classi di Stefano Viviani.
Vorrei dire ancora due parole sulla scuola e la tecnologia digitale. Riguardo all'influsso di questa tecnologia sugli allievi di tutte le scuole il discorso è molto ampio e variegato, e non è possibile approfondirlo qui. Di sicuro internet facilita l'accesso a quantità enormi di informazioni e di stimoli, e quindi, se ben usato, può costituire un arricchimento fenomenale per la vita intellettuale di tutti. Se adoperato con i giusti criteri, è un mezzo di ricerca potentissimo. Restano i pericoli: in generale, con il dilagare del digitale in tutte le sue forme, viene notata negli allievi una diminuzione della capacità di fare attenzione per periodi prolungati; c'è una maggiore difficoltà nel comunicare faccia a faccia, visto che si comunica già così tanto attraverso schermi e schermini; e si presenta il pericolo di affrontare acriticamente il materiale offerto da internet, o di perdersi in un oceano di informazioni.
I metodi delineati in questo libro sono, da questo punto di vista, un toccasana: i ragazzi, se sono loro a pensare e parlare in prima persona, partecipano ininterrottamente durante tutta l'ora; la qualità dell'attenzione sale vertiginosamente; siccome la riflessione è corale, gli allievi comunicano fra loro in modi non-digitali; se coltivano la loro capacità di pensare con la propria testa, presumibilmente saranno più cauti nell'accettare come oro colato ciò che internet offre loro.
Le domande che si devono porre in merito sono parecchie. Mi posso fidare di Wikipedia? E' sufficiente un solo riferimento? Come valutare l'informazione raccolta? Come metterla in relazione con il sapere già a disposizione? E poi: per quanto tempo sono capace di stare senza smartphone? E' chiaro che qui più che mai servono una mente agile e uno spirito indipendente.
Quando si pensa e ci si sente bene assieme, è naturale affezionarsi gli uni agli altri, e all'insegnante. Sono abbastanza sicuro che Stefano Viviani negli anni futuri non popolerà gli incubi dei suoi allievi. E fra molto tempo, quando lui sarà un anziano signore e i suoi allievi cresciuti lo incontreranno per la strada, non faranno finta di non averlo visto, ma gli correranno incontro per salutarlo. E per dirgli "grazie".
Fiesole, maggio 2014
Stefano Viviani - L'intelligenza inattesa
Prefazione al libro. Pisa: ETS, 2014