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Le sfere di Indra
Un'autobiografia formativa

Una mia convinzione profonda è che noi siamo costituiti dagli altri – le relazioni che abbiamo avuto nellla nostra vita formano la sostanza stessa di cui siamo fatti. Quindi i nostri genitori e parenti, i nostri amici e colleghi e maestri e tutte le altre persone con cui abbiamo interagito, vivono dentro di noi. Gli altri sono in noi, noi siamo negli altri, come nei cieli del dio Indra, in cui sfere luccicanti si rispecchiano le une nelle altre e anche rispecchiano i rispecchiamenti, e così via all'infinito. Questo include le musiche che abbiamo amato, i libri che ci hanno formato, i paesaggi i quadri i film e le architetture che ci hanno colpiti, tutto fa parte del tessuto vitale che è la nostra esistenza. E quindi senza Dante e Kafka, senza i concerti per pianoforte e orchestra di Mozart o gli affreschi di Piero della Francesca, senza Platone e Chuang Tse, io sarei una persona molto diversa da quello che sono.

Della mia famiglia di origine devo dire subito che ho avuto due madri, perchè mia zia Emilia viveva con noi e a noi ha dedicato la sua vita. Da questa famiglia ho imparato soprattutto a essere onesto e a lavorare sodo e a pensare sempre anche agli altri e essere sempre puntuale e dividere la torta in parti uguali (l'ho imparato, che lo faccia sempre magari è un altro discorso). A tutti loro devo moltissimo. Mi sono reso conto davvero di quanto i miei genitori hanno fatto per noi figli solo quando ho avuto dei figli io, questo compito enorme, impegnativo, meraviglioso e impossibile. Pensando ai miei genitori, penso che anche loro hanno avuto dei genitori. Di nonni ne abbiamo quattro, di bisnonni otto, di trisnonni sedici, e ognuno di loro confluisce in qualche modo in noi. Se risaliamo di quindici generazioni (meno di 500 anni), si parla di migliaia di persone. Che ci fa tutta questa gente dentro di me? Tutti questi destini, questi DNA, queste anime, che si fondono in ognuno di noi. Chi sono? Contadini, delinquenti, santi, statisti, scienziati, artisti, alti, bassi, biondi, bruni, buoni, cattivi, ce n'è di tutto. Eppure io sono io, io sono uno, o per lo meno questa è l'impressione. E' un bel mistero.

Mia sorella da piccola pensava sempre di essere un animale: volava, galoppava, saltellava. Poi gli animali ha cominciato a disegnarli, ed era proprio brava. Sull'improbabile ma autentica storia di quando vendette uno suo disegno a Stravinsky preferisco non dire nulla ora, perché l'intera vicenda è complessa e implica uno scontro di visioni del mondo, ma ho intenzione di scriverne in un prossimo futuro.

E qui mi viene subito un dubbio: chi sono io per scrivere una (piccola) autobiografia? Non sono mica famoso, non sono un personaggio pubblico. Mi conforta subito un'idea: il bello degli scritti è che se uno si annoia a leggere può smettere (eccettuando forse i cattivi romanzi gialli, dove ti senti costretto a continuare per vedere com'è andata a finire). Quindi se proseguite lo fate solo perché vi interessa (potrebbe, questa, essere una giustificazione legittima per tutti gli scritti balordi di questo mondo? Direi proprio di no, ma non andiamo troppo per il sottile). In realtà penso che ogni vita sia interessante, perché è il racconto di una persona. Questo mio scritto è una riflessione sulle strade misteriose e inaspettate della vita, su come le vie degli umani si intrecciano, su come ognuno di noi vive negli altri e gli altri vivono in noi, e su come le idee e i ricordi perdurano e continuano a svilupparsi anche dopo molto tempo.


Il grande mistico indiano Ramakrishna usa la similitudine del seme disperso. Sul tetto di una casa un giorno da un albero vicino cade un seme. Cade proprio sul bordo, sul cornicione. Per anni rimane lì inattivo. Intanto nella casa accadono molte vicende, si succedono mille eventi, la gente vive e muore, gli anni passano. A un certo punto però la casa viene abbandonata e rimane disabitata, e a poco a poco cade in rovina. Si spezza il cornicione, e il seme cade al suolo. Poi incomincia a germogliare. Il germoglio diventa un albero enorme che alberga, nutre e protegge molti esseri. La similitudine è usata da Ramakrishna per illustrare gli effetti ritardati delle nostre azioni nelle vite passate. Ma si può applicare anche ai nostri incontri. Le persone con cui i nostri cammini si incrociano lasciano cadere dei semi dentro di noi, e questi semi magari anche dopo molto tempo germogliano e diventano alberi immensi. Gli influssi di chi incontriamo, ciò che impariamo da loro, le loro parole e i loro atteggiamenti, continuano a vivere in noi. Anche a lunga distanza di tempo. Così diventiamo ciò che siamo. Così si svolge questa strana avventura della vita.

Ma non tiriamola per le lunghe: incominciamo subito con l' Università. Nei miei studi di filosofia all'Università di Torino, uno dei miei professori fu Nicola Abbagnano. Ognuna delle sue lezioni era un capolavoro di chiarezza. Avevo l'impressione che con molto tatto un folletto benevolo entrasse nel mio cervello e mettesse in ordine gli archivi: un ordine pervaso dal nitore e dalla ragione. Era una sensazione al tempo stesso di sollievo e di forza intellettuale. Uscendo dall'Aula Magna avevo l'impressione di essere più intelligente di quando ero entrato. Abbagnano portava senza sforzo i suoi interlocutori al suo altissimo livello intellettuale. Del resto lo stesso Abbagnano aveva detto a noi allievi: voglio aiutarvi ad avere una mente più tagliente. C'era anche Luigi Pareyson, autore del libro Esistenza e persona. Pareyson parlava anche lui in maniera tersa e lucida, ma mentre Abbagnano illustrava la storia della filosofia, Pareyson esponeva la propria filosofia, e lo faceva in maniera tale che uno alla fine pensava, non può essere altro che così, tanta era la forza di convinzione e la potenza logica delle sue argomentazioni.

Ma l'influsso più forte di quei tempi mi è venuto da un altro professore, che già era stato mio insegnante di filosofia al liceo: Pietro Chiodi, a quei tempi il maggiore studioso di Heidegger in Italia. E qui i ricordi del liceo sono anche più abbondanti di quelli universitari. Chiodi era stato partigiano, aveva lottato per la libertà, quello era ciò in cui credeva con passione e insegnava ai suoi allievi: la libertà di pensiero, contro ogni dogmatismo, contro ogni dittatura. Credere solo a ciò che, in un modo o nell'altro, si può andare a verificare, mai perché lo dice qualcuno che ci impone di crederlo. E' una posizione risolutamente empirica, e la base imprescindibile per qualsiasi lavoro intellettuale. Mi ricordo il gusto con cui Chiodi raccontava un episodio di Bertrand Russell. "Se qualcuno mi dicesse che ho un elefante nel taschino" diceva il filosofo inglese, "prima di dire di no guarderei dentro il taschino, lo rivolterei completamente, lo osserverei con una lente. E se non trovassi niente, arriverei alla conclusione che probabilmente non c'è nessun elefante nel mio taschino". Capire il significato pieno di questa impostazione significava moltiplicare mille volte le mie possibilità culturali e spirituali. Chiodi andava quasi sempre fuori tema, parlava di quando era partigiano, delle poesie che gli piacevano, della politica, di come era organizzata male l'istruzione nella scuola, dell' attualità, di quello che gli passava per la testa.

Per esempio una volta ci voleva spiegare il concetto di "voce", intesa come voce di popolo. Ci disse che alla fine della guerra un gruppo di donne inferocite stavano linciando un soldato tedesco, il quale era ormai morente. Lui passava di lì, si fermò. Disse alle donne, scostatevi, ha già sofferto abbastanza, gli tiro io una mitragliata. Allora dal gruppo si alzò una voce riferita a lui, anonima, improvvisa, letale: "E' un fascista!". Era, appunto, una voce. E come quasi tutte le voci, senza riscontro, carica di emozione, irrazionale, fortemente contagiosa. Senza pensarci due volte, tutte le donne subito credettero a quella voce. Si avvicinarono minacciose, ora volevano linciare lui. Per fortuna aveva il mitra per tenerle a distanza, e se ne andò. Insomma, l'informazione sulla realtà viene potentemente distorta dalle emozioni, dalle circostanze contingenti e dagli eventi passati, fino a diventare quasi un'allucinazione. Un'altra volta invece Chiodi parlava di come avrebbe organizzato un corso di studi. Lui avrebbe cominciato dal presente, dalla situazione culturale e politica attuale, e poi sarebbe andato a ritroso, come un gambero. Lì per lì disse, la chiamerei "scuola del gambero"! In letteratura per esempio, si sarebbe incominciato con Calvino e Moravia (contemporanei a quei tempi) e si sarebbe andati a mano a mano indietro fino ad arrivare ai classici.

Mi viene spesso a mente un'altra storia che ci aveva raccontato: era andato a un congresso di filosofia, e filosofi di varie scuole, marxisti, idealisti crociani, esistenzialisti, cattolici avevano battagliato ferocemente per tutta la mattina, esponendo visioni radicalmente diverse dell'individuo e della società. Poi tutti assieme andarono a mangiare. E lì Chiodi si rese conto che in quello erano tutti uguali: che tu sia un materialista o uno spiritualista, un socialista o un liberale, di fronte a un piatto di pastasciutta ti comporti proprio come tutti gli altri: le vedete tutte le implicazioni di questo ragionamento? Insomma, ogni volta Chiodi aveva uno stimolo nuovo, uno scorcio di vita, una provocazione. Altro che imparare come delle macchinette. Qui si imparava a pensare.

Un altro professore ancora che insegnava all'Università in quei tempi ebbe per me una notevole importanza: era Oscar Botto, docente di filosofie orientali. Io già mi stavo interessando di meditazione, e mi colpì un suo testo sul buddhismo. Soprattutto la parte che parlava della pratityasamutpada, l'idea della generazione interdipendente: la dottrina centrale del buddhismo. Secondo questa dottrina tutto è conseguenza non di una sola ma di molte cause che si intrecciano di continuo nel cosmo. Non c'è una causa e un effetto, ma un intersecarsi di cause molteplici su vari livelli. E' un po' la tesi soggiacente questo stesso scritto, in cui descrivo come la realtà che io sono e che tutti siamo è il risultato di infinite irripetibili interazioni. Ma la teoria va oltre, e descrive il susseguirsi inesorabile di dodici fasi fra loro concatenate, che determinano la nostra schiavitù e la nostra perdizione nel ciclo delle nascite e delle rinascite, un divenire cieco e affannoso che va avanti senza sosta come un incubo infinito: fino a quando non ci si sveglia, e si decide di spezzare questo ciclo e avviarsi verso la liberazione. Vi mostro il dolore, diceva Buddha, e vi mostro la fine del dolore.

Andiamo avanti. Citando un misterioso verso di Archiloco ("la volpe sa molte cose, ma l'istrice ne conosce una sola e grande"), il saggista inglese Isaiah Berlin descriveva due tipi di mente: quella che si occupa a fondo di un unico soggetto e riferisce tutto quanto a un solo principio centrale (l'istrice), e quella invece che ha molti interessi e coltiva vari punti di vista (la volpe). Io ero, e sono, una volpe. Prima ancora dell'università mi ero guardato attorno. Non sapevo che fare della mia vita, i miei interessi erano così variegati che rischiavo la dispersione. Quale corso di studi dovevo frequentare? Avevo molte tentazioni e interessi, e in quel periodo andai in giro per incontrare varie persone e farmi qualche idea. Andai anche all'Istituto Mario Negri di Milano, dove si svolgevano ricerche sugli effetti di varie sostanze sul cervello. Io ero interessato proprio a questo argomento. Fui ricevuto con molta cortesia. Mi ricordo che incontrai per pochi momenti anche Silvio Garattini, che a quell'epoca era un giovane e promettente scienziato. Una nota rivista scientifica gli aveva dedicato una copertina, e tutti gli pronosticavano un avvenire promettente. Ma l'incontro più significativo avvenne col professor Luigi Valzelli, che con molta gentilezza rispose a tutte le mie domande, e improvvisò per me un esperimento. In quel periodo stava studiando gli effetti che l'isolamento può avere sul cervello. Mi fece vedere un topo bianco che per un lungo periodo era stato tenuto isolato. Era molto più grasso degli altri (che erano in gabbie da un'altra parte, e saltellavano e correvano qua e là). Valzelli allora prese questo topolone e lo mise assieme agli altri topi. Che cosa avrebbero fatto assieme? Si sarebbero salutati, avrebbero giocato, si sarebbero accoppiati? Niente di tutto questo. Senza nessuna esitazione il topo che era stato in isolamento si avventò su uno dei topolini e in un attimo lo uccise. Così, tanto per farlo fuori. Insomma l'isolamento aveva moltiplicato la sua aggressività. La cosa mi fece molta impressione e pensai subito che si poteva estendere agli esseri umani. Però mi resi anche conto che ciò che mi stava a cuore non erano tanto gli esperimenti controllati con animali, ma il divenire imprevedibile, a volte bizzarro, variegato e irripetibile della vita umana. Sentivo che lì si sarebbe diretto il mio interesse.

Il mio debutto pubblico fu con la narrativa. Negli anni di università avevo scritto alcune brevi storie. Erano un po' strane. In una per esempio, Abborruomo, un extraterrestre a forma di feto era approdato sul tappeto nel salotto di casa mia, e l'unico suo segno di vita era un lampeggiamento ritmico, io lo chiamavo Abborruomo. Tutti trovavamo la cosa disidicevole e imbarazzante, e non sapevamo come nasconderla. Io così concludevo: "Ogni famiglia ha il suo Abboruomo". Un altro racconto era di un angelo che mi veniva a prendere perché era finita la mia vita, poi si correggeva: "Hai ancora quindici minuti circa, ti aspetto al bar". Un altro ancora era di un essere con una doppia personalità: di giorno era rispettabile, di notte diventava viscido e si poteva muovere attraverso le tubature e arrivare dove voleva, e andava in giro a terrorizzare la gente. Ma non si rendeva conto della sua doppia personalità. Queste storie piacquero molto a Fernanda Pivano, che mi incoraggiò e mi presentò a Giangiacomo Feltrinelli; però poi non se ne fece di nulla, e allora le pubblicò su una rivista da lei stessa fondata, e intitolata Pianeta Fresco, di cui era "direttore irresponsabile" Allen Ginsberg, grande poeta americano, e tradotto in italiano dalla Pivano. Lei era una donna molto intensa, intelligente, e anche simpatica; oltre a essere una bravissmai traduttrice era un'intellettuale di prima grandezza. Essere incoraggiato a scrivere da lei quando avevo poco più di vent'anni ha avuto un effetto parecchio stimolante su tutta la mia vita. Parecchi anni più tardi, quando avevo già pubblicato libri di psicologia, la incontrai di nuovo, e mi disse di smetterla di scrivere le solite fregnacce, e dedicarmi invece alla narrativa. E invece io, avanti con le fregnacce.

Dopo l'università andai per qualche tempo in America, a Hollywood, dove viveva mia zia Laura, che era emigrata lì come violinista parecchi anni prima e aveva sposato Aldous Huxley, soprattutto noto come autore del best seller Il mondo nuovo. Laura viveva in una bella villa di stile spagnolo dove io sono tornato ogni anno dal '68 in poi, era proprio sotto il famoso Hollywood sign. Ma Hollywood è diversa da quel che in genere si pensa. Come Los Angeles, di cui fa parte, è nata dal deserto, un luogo dove piove meno che nel Sahara. E' un posto forte e resiliente. L'aria pungente del deserto ti circonda, per lo meno a casa di mia zia, proprio a ridosso di una grande area naturale. Attraverso gli anni Laura è stata una sorgente inesauribile di idee e di ispirazioni, anche perché la sua casa era un crocevia attraverso cui passava una campionario strabiliante di persone, alcune delle quali originali e creative, altre un po' folli e strane ma sempre interessanti. Verso la fine della sua vita ho aiutato Laura a scrivere in un libretto (intitolato How to Die Healthy, "Come morire in buona salute") sui punti che più le stavano a cuore e che voleva fossero utili per le generazioni più giovani. I punti corrispondono alle cinque dita di una mano: il respiro, perché il respiro è vita e se non respiriamo bene stiamo male; il movimento, perché la vita è movimento e se non ci muoviamo diventiamo ingessati nelle nostre nevrosi; le piante, sì, le piante, che devono costituire la parte più grande (se non tutta) della nostra nutrizione; il perdono, perché portandoci dietro i nostri rancori viviamo nel veleno da noi stessi generato; e l'amore in tutte le sue forme: e qui non c'è niente da spiegare. Come potete intuire, il corpo per Laura era di immensa importanza: è da lì che parte tutto; le piaceva citare William Blake: "Man has no Body distinct from his Soul; for that called Body is a portion of Soul discerned by the five Senses. " (L'Uomo non ha un Corpo distinto dalla sua Anima; perchè ciò che chiamiamo Corpo è una parte dell'anima percepita dai cinque Sensi.").

Con Laura ha vissuto per parecchio tempo Karen Pfeiffer (nata nel 1974), per cui Laura è stata un po' come una mamma o nonna adottiva. Io ho avuto l'occasione di passare parecchio tempo con lei quando era piccola, ed è stata la prima volta che ho capito che cosa vuol dire stare con un bambino piccolo: lo hai sempre presente, e lo devi tenere in braccio molto tempo. Quando tornai in Italia Karen non era più con me, e io potevo sentirne la mancanza fisica. Era come se avesse fatto parte della mia aura, e adesso invece ora era lontana cinquemila chilometri. Se è vero che tutti coloro che incontriamo vengono a far parte di noi, questo è ancora più vero dei bambini piccoli. Karen era una bambina magica con occhi cerulei intensissimi in cui ti perdevi, e tutti quelli che la incontravano se ne innamoravano per sempre. A mano a mano che cresceva, io incontravo Karen ogni anno quando andavo in America. A un certo punto mi ero messo in testa di farle un po' da guida, e a quel tempo pensavo che i bambini dovessero essere trattati con severità e rigore, tipo metterli a dormire da soli fin da quando sono piccolissimi, e dirgli tutto quello che devono fare e sgridarli se non obbediscono. In seguito dai quei principi ho clamorosamente abdicato. Però a quell'epoca ci credevo ancora, e un paio di volte in un fremito di severità detti una sculacciata a Karen. Ma era una sculacciata così incerta e debole che faceva ridere. Lei corse via, poi a distanza di sicurezza mi gridò con tono di sfida: "Non mi ha fatto niente". Adesso Karen ha quarant'anni e una figlia di nome Kaya a cui pure sono molto affezionato.

Aldous Huxley, il marito di Laura, era il pronipote di Thomas Huxley, il grande scienziato che aveva combattuto per fare capire e accettare la teoria dell'evoluzione di Charles Darwin, di cui era anche un grande amico. Quando lesse per la prima volta The Origin of the Species, il capolavoro di Darwin, si dice che in un attimo di sorpresa sgomenta abbia esclamato: "Che stupido a non averci pensato prima!". Il suo incontro pubblico col vescovo Wilberforce è leggendario. Il vescovo incominciò a prenderlo in giro, domandandogli se discendeva dalle scimmie per parte di madre o di padre. La sua nobile risposta è storica: "Preferisco discendere dalle scimmie anziché essere un uomo che oscura la verità". Sembra strano dirlo, ma quando io ero piccolo, di evoluzione si parlava ancora poco, e il soggetto era ancora controverso. Considero la prospettiva dell'evoluzione una pietra miliare nella nostra storia, e un elemento fondamentale per capire il nostro posto nel cosmo.

Aldous Huxley era noto anche per essere stato fra i primi ad aver sperimentato con gli psichedelici come l'LSD e la mescalina, riportando poi le sue impressioni nel libro The Doors of Perception (Ancora Blake: "If the doors of perception were cleansed, every thing would appear to man as it is, Infinite. For man has closed himself up, till he sees all things thro' narrow chinks of his cavern". ("Se le porte della percezione fossero ripulite, ogni cosa ci apparirebbe com'è, Infinita. Perché l'uomo si è chiuso, fino a vedere tutto attraverso le strette crepe della sua caverna"). La sua idea era che gli psichedelici potevano essere alla base di un lavoro serio e approfondito di esplorazione di sé, e di facilitazione di quell'"esperienza visionaria" in cui si ha accesso a una vera e propria gnosi. Ricordiamo che "visionary" in inglese non ha la connotazione negativa che ha invece "visionario" in italiano. Significa vedere qualcosa che altri non vedono perché sono più condizionati o distratti o limitati. Quindi qui si parlava della possibilità di trasformare la nostra società aiutando le persone ad aprire la mente, e mostrando loro la bellezza stupefacente dell'universo e anche del loro microcosmo interiore.

Presi anche io l'LSD, sotto la guida di Laura. Era "Sandoz LSD", quando ancora la grande ditta farmaceutica di Basilea stava preparando questa sostanza, quindi allo stato puro garantito. Gli psichedelici non vanno presi a casaccio, ma solo con il supporto di una persona che sa quello che fa e con l'intenzione di esplorare se stessi e il mondo. Mi colpiva, sotto gli effetti dell'LSD, come era facile per me vedere dentro le persone, capire le loro insicurezze nascoste, la loro rabbia, le loro segrete speranze, i loro imbarazzi, la bellezza della loro anima, con una trasparenza che può essere terrificante quanto sublime. Mi colpivano le meraviglie della natura: vedere, per esempio una farfalla muoversi lentamente nell'aria, come se fosse l'essenza di tutte le farfalle, oppure una foglia che respirava, o un fiore come se ci fosse stato regalato da un dio che ci vuole bene. Mi colpiva anche ascoltare la musica, soprattutto la musica di Bach, che acquisiva significati di sorprendente profondità e si trasformava in meravigliosi incastri di immagini concatenate l'una con l'altra, e io ero parte di quelle figurazioni. Guardandomi nello specchio vedevo me stesso diventare una donna, un vecchio, un miserabile malevolo e malato, un uomo bellissimo di grande luminosità e spiritualità, e poi subito dopo un ominide peloso e scimmiesco, un monaco tibetano o un pastore greco o un giovane cinese, mi vedevo in tutte le età della vita - quasi delle icone di incarnazioni precedenti. A un certo punto arrivai a quella che mi pareva la realizzazione suprema, il satori, come è chiamato nello zen: l'esperienza della coincidentia oppositorum, dell'unità di tutte le cose: di me stesso con l'universo intero nell'Eterno Ora. O per lo meno così a me pareva.

Che l'LSD sia in grado di offrire l'esperienza spirituale suprema o invece ne sia solo una lontana imitazione, è oggetto ancor oggi di discussione. A quei tempi Roberto Assagioli, il fondatore della psicosintesi, di cui parlerò dopo, diceva che l'LSD è come prendere l'elicottero per arrivare in cima alla montagna. Poi devi imparare ad arrivarci da solo. Ma certo per me furono esperienze altamente significative, che mi fecero diventare cosciente di un mondo vasto, sottile e meraviglioso di cui prima ignoravo l'esistenza. Riguardo all'LSD, però, non mi pronuncio: non è né necessario né sufficiente per la crescita personale e spirituale, non lo consiglio, ma non lo sconsiglio, anche se mi pare una follia il prenderlo tanto per fare, come si beve una birra. Può essere molto utile ad alcuni, ma pericoloso per altri, anche se molto di meno di altre sostanze liberamente in circolazione, come l'alcol.

In America ebbi occasione di passare del tempo nell'Istituto di Esalen, il primo posto ideato come luogo dedicato all'esplorazione delle potenzialità umane. Lì partecipai a un seminario di Fritz Perls, il fondatore della terapia della Gestalt, un uomo di una certa età, andava in giro con una sigaretta in bocca tipo Gauloise, la barba grigia incolta, e una tuta da paracadutista. Perls non faceva sedute individuali se non davanti a un certo numero di persone, come in uno spettacolo teatrale. Chi voleva lavorare doveva salire in scena, e Fritz gli faceva usare la tecnica delle sedie: ti siedi su una sedia, immagini che sulla sedia vuota di fronte a te ci sia, per esempio, tua mamma, e le parli, dicendo tutto ciò che senti verso di lei in quel momento, rabbia nostalgia amore senso di colpa, poi vai sull'altra sedia e diventi tua mamma e rispondi. In questo modo vivi in prima persona, e quindi incorpori di nuovo in te, ciò che avevi proiettato su tua mamma. E alla fine diventi più intero. Questo a dirla in breve, ma l'essenziale era che Fritz aveva una capacità miracolosa di vedere – e toccare - il tuo nervo scoperto e quindi destrutturare la tua armatura psichica. I partecipanti si susseguivano sul palco, urlavano, piangevano, piombavano nella disperazione, tremavano, andavano fuori di sé, in pochi istanti avevano illuminazioni fulminanti sulla loro esistenza. In quel seminario rimasi completamente terrorizzato: io, giovane filosofo cresciuto in un ambiente accademico, come facevo a esporre tutte le mie emozioni più intime in questa sorta di terapia-spettacolo? Che quel giorno lo spaghetto mi abbia impedito di salire sul palco e lavorare con Fritz è uno dei grandi rimpianti della mia vita. Comunque lo feci in altri seminari, con altri gestaltisti. Da Fritz imparai l'importanza dell'emozione cruda, il guardare quello che succede nel qui e ora, il fuggire dalla trappola delle spiegazioni intellettuali, e anche la visione organismica dell'essere umano, la consapevolezza che il "corpo non mente mai", l'importanza di mettersi a nudo di fronte a un'altra persona: e così di essere autentici.

In America incontrai più volte Ram Dass: era stato docente di psicologia a Harvard, ma poi fu espulso perché proponeva l'LSD come metodo per liberare la mente. In seguito però abbandonò questa soluzione, e incominciò a seguire le filosofie orientali. Da un viaggio in India tornò spiritualmente rigenerato dopo una profonda esperienza interiore. Aveva un seguito notevole, parlava con un linguaggio moderno e possedeva un magnifico senso dell'umorismo. Uno suo libro si intitola Grist for the Mill: tutte le esperienze della vita, anche le più dure e difficili, sono per noi occasioni per imparare e procedere nel nostro cammino di liberazione spirituale. Ha messo in luce l'importanza del servizio, di prendersi cura degli altri: a volte seguire un cammino spirituale di meditazione e interiorità è una specie di egoismo mascherato e compiacente. Da lui ho anche imparato a leggere e rileggere i grandi classici della letteratura spirituale, che già conoscevo, ma sempre da approfondire, come la Bhagavad Gita, Il Sutra del Diamante, il Tao Te Ching. Ora queste opere diventavano sempre più una luce sul mio cammino. La presenza di Ram Dass è bellissima, irradia un grande calore e una grande intelligenza. A questo proposito ho un ricordo curioso. Ero andato a un incontro pubblico con Ram Dass. Per tutta la sera aveva parlato, e assieme ad altri aveva cantato delle preghiere devozionali della tradizione yogica. Alla fine era letteralmente pieno di luce. Si vedeva la luce irradiare da lui e anche da altri che lo avevano accompagnato. Alla fine doveva tornare a casa, e in quegli anni quando veniva a Los Angeles spesso era ospitato proprio da Laura, per cui facemmo il tragitto assieme. Arrivati a casa di Laura, era ora di andare a dormire. A questo punto Ram Dass si avvicinò a me, voleva dirmi qualcosa. Lo guardai negli occhi: era evidentemente in uno stato di coscienza molto bello e molto alto, una specie di stato beatifico. Dunque si avvicinò a me, e mi domando: "Hai un paio di aspirine?" Quella richiesta ebbe un grande effetto su di me. Ma come, io pensavo che uno stato di espansione di coscienza fosse una specie di garanzia di salute, di benessere, di interezza. E invece no, anche a quei livelli uno era sempre soggetto alle imperfezioni e agli inconvenienti della vita che è in sorte a tutti gli umani.

Anni fa Ram Dass accettò un mio invito di venire a Firenze, dove fece una conferenza nel cenacolo di Ognissanti, quello con l'affresco del Ghirlandaio. Il giorno dopo andammo a Fiesole, e mi ricordo ancora la sua gioia nel visitare il convento di San Francesco e le celle dei monaci – si sentiva nel suo elemento. Per molte persone la spiritualità è quanto di più rigido, opprimente, noioso e innaturale ci possa essere, forse perché così ci è stata inculcata. Ram Dass ha il dono di renderla irresistibilmente avvincente, come un viaggio in un paese meraviglioso, ma anche come ciò che di più naturale e nostro ci possa essere al mondo.

Stavo dicendo di Aldous Huxley. Lo avevo incontrato a New York quando avevo nove anni, nella mia prima visita agli States, e lui non era ancora diventato il marito di Laura. In seguito lo incontrai ancora a Hollywood, e poi quando lui e Laura venivano a trovarci in Italia. A mia sorella e a me, che ancora eravamo piccoli, faceva molta impressione: un uomo altissimo e gentile, con una camminata peculiare ma elegante, con un italiano perfetto anche se colorato dal suo accento di Eton, e una cultura immensa. Anni dopo lessi che un giorno dei bambini lo incontravarono per strada in una delle sue passeggiate sulle colline di Hollywood, e gli domandarono:"Sir, are you the man from outer space?" "Signore, siete uno spaziale?" Quello che ci colpiva era anche la sua inesausta meraviglia di fronte al mondo. Amava dire "Incredibile" e "straordinario" a ogni piè sospinto, perché tutto lo stupiva. Spesso usava una lente portatile per esaminare le cose. Un giorno, quando lui era a tavola con altri commensali importanti io (che ero allora un bambino di nove anni, e avevo mangiato prima, assieme agli altri bambini), trovai nel giardino di Hollywood un insetto peloso e stranissimo; lo misi in una scatoletta, e lo portai a far vedere a Aldous, con grande imbarazzo degli altri commensali. Lui estrasse di tasca la sua lente, lo guardò, poi disse: "Most extraordinary!" Mi ricordo che a Torino fu intervistato, e disse che l'unica maniera di salvarci per noi esseri umani è di coltivare l'amore e l'attenzione. Allora avevo quattordici anni, non potevo capire la portata di questa affermazione, ma mi rimase impressa e mi ha accompagnato per tutta la vita: amore, nel senso più ampio di gentilezza e benevolenza e cura degli altri; attenzione, nel senso di consapevolezza e capacità di vivere nel presente, come indicato dal buddhismo e altre tradizioni spirituali.

Aldous si interessava a tutto ciò che poteva sviluppare le potenzialità umane (fu fra i primi a usare questo termine, coniato dallo psicologo Gardner Murphy). Su questo soggetto scrisse Island, il romanzo di un'isola dove gli abitanti mettono in pratica idee e metodi tratti da ogni tradizione e civiltà, e atti a renderci più consapevoli e più capaci di vivere una vita piena e felice. In seguito dei giornalisti lo intervistarono domandandogli qual'era secondo lui il metodo più efficace per sviluppare le potenzialità umane. Lui rispose:"E' imbarazzante dirlo, ma dopo tutte le mie ricerche e riflessioni, il consiglio migliore che mi sento di dare è semplicemente di essere un po' più gentili". Parole che mi ispirarono, molti anni più tardi, a scrivere il libro La forza della gentilezza..

Aldous è stato di enorme importanza per me. Ho avuto il privilegio di curare l'edizione delle sue conferenze all'università di Santa Barbara (pubblicate col titolo The Human Situation), in cui ha riassunto la sua visione del mondo. Secondo il grande violinista Yehudi Menuhin, che era suo amico, ascoltare le sue conferenze era come ascoltare una musica di grande bellezza. Da non molto si possono ascoltare come podcast sul sito UCLA Special Collections. Per me un suo libro fondamentale oltre Island è stato La filosofia perenne, in cui lui cerca di individuare il nucleo comune di tutte le tradizioni spirituali. Della religione istituzionalizzata vedeva lucidamente tutti i rischi e le magagne ("Tantum religio potuit suadere malorum", a tanti mali poté spingere la religione, secondo le parole di Lucrezio); ma quello che per lui aveva un'importanza cruciale era l'ispirazione originaria della religione, e cioè l'esperienza transpersonale dell'unione col tutto, l'illuminazione ("Tantum religio potuit suadere bonorum" - a tanto bene potè condurre la religione). Aveva scritto questo libro durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo oscuro e brutale, in cui si sviluppava la lotta di tutti contro tutti, Aldous aveva cercato di individuare gli insegnamenti più profondi che possono unire l'umanità.

Un altro inglese emigrato in California che io pure ebbi occasione di incontrare varie volte, era Alan Watts, che aveva scritto dei libri sullo Zen, e che era un brillantissimo parlatore di grande cultura, sempre pronto alla provocazione. Mi ricordo una conferenza in cui disse che un maestro spirituale è come uno che ti ruba l'orologio d'oro, e poi te lo rivende a caro prezzo – però se lui non te lo avesse rubato tu non saresti mai stato davvero in possesso cosciente di quell'orologio! Un'altra volta elencò quelle che secondo lui erano le domande fondamentali della vita: chi siamo, da dove veniamo, e chi si occupa dei rifiuti ("who is going to clean up the mess") – un'idea che non è da buttare. Una volta lui e Aldous Huxley si incontrarono in un ristorante di San Francisco. Aldous aveva ciò che lui stesso ironicamente chiamava una "ignoranza enciclopedica", sapeva tutto di tutto, che si trattasse del Cavaliere Polacco di Rembrandt, delle variazioni di Brahms su un tema di Haydn, del Palio di Siena, delle varie etimologie della parola "pontifex", o di qualsiasi altro soggetto, poteva parlare come un esperto. Era una cosa impressionante. Alan Watts non era da meno. Incominciarono a chiacchierare spaziando su vari soggetti. A un certo punto si resero conto che l'intero ristorante era piombato nel silenzio. Tutti stavano ascoltando affascinati la loro conversazione.

Adesso arriviamo a un incontro decisivo. Studiare con Roberto Assagioli, il fondatore della psicosintesi, è stato per me una pietra miliare, e ne parlo più a fondo in un'altra parte di questo sito (psicosintesi). Lui aveva partecipato in prima persona a due grandi rivoluzioni della psicologia: la psicoanalisi (Freud lo considerò il suo rappresentante in Italia) e la psicologia umanistica e transpersonale degli anni '60 e '70. Assagioli mi ha dato una struttura di riferimento per inquadrare quello che avevo imparato e che avrei imparato in seguito, ed è stato la fonte principale di ispirazione e di guida nella mia vita. Quando lo incontrai io era vecchio – un vero vecchio saggio. Con lui, e con i suoi altri collaboratori, si meditava assieme a mezzogiorno e alla sera. Spesso il tema era l'infinito e l'eterno. Alla fine, dicevamo assieme la grande benedizione buddhista: amore a tutti gli esseri, compassione a tutti gli esseri, gioia a tutti gli esseri, serenità a tutti gli esseri. Una volta, quando stavo meditando con lui, aprii gli occhi e lo guardai. Eravamo arrivati a: gioia a tutti gli esseri, bisognava visualizzare di irradiare gioia verso tutti gli esseri viventi. Vidi che Assagioli era radioso, in uno stato chiaramente estatico. Lui però sentì che lo stavo guardando, e aprì gli occhi. Allora guardandoci negli occhi ci incontrammo nella gioia: fu un momento bellissimo. Da allora spesso accadeva che, quando arrivavamo alla gioia nella irradiazione, aprivamo gli occhi e ci incontravamo su quella lunghezza d'onda. Assagioli si era procurato un globo celeste con tutte le stelle, che si accendeva da dentro, una specie di mappamondo del cosmo, che lui teneva sulla scrivania e che quando era acceso spargeva nella stanza una piacevole luce azzurra. L'idea era di vedere gli eventi della vita, tutti i nostri guai pasticci problemi litigi, nella prospettiva dell'eternità. Questo fa sì che non li prendiamo, e non ci prendiamo, troppo sul serio. E quando qualcuno si sposava, Assagioli immancabilmente gli regalava proprio questo aggeggio.

Io penso di avere conosciuto in vita mia tre persone con il talento della psicoterapia – perché indubbiamente è un talento, come il talento musicale o quello matematico: Fritz Perls, di cui ho detto prima, Virginia Satir, pioniera della terapia famigliare, e Assagioli. Ma tutti e tre guarivano, o aiutavano a vedere le proprie abitudini nevrotiche e liberarsene, in maniera completamente diversa. Fritz aveva una capacità miracolosa di vedere il punto debole della tua architettura nevrotica, e con una semplice mossa toglierle il suo punto d'appoggio e smontare in pochi secondi una struttura che si era formata nel corso di anni e anni. Vedevi le persone che cambiavano davanti agli occhi. Incredibile.

Virginia Satir ti faceva fare una specie di psicodramma in cui dovevi rappresentare esplicitamente e simbolicamente le interazioni della tua famiglia, e quando faceva questo si accendeva un lampadina e capivi tutto. Ma questo tipo di intervento bisogna saperlo fare – se si fa nel modo giusto è liberatorio, altrimenti si muore di noia e basta. Io stesso sono stato soggetto di Virginia Satir per una dimostrazione – non lavoravo su un mio problema, ma in un congresso si parlava di come il troppo amore può soffocare i bambini. Io dovevo impersonare il bambino. Quattro persone erano gli adulti che volevano ansiosamente bene al bambino e lo nutrivano con entusiasmo. Una aveva un enorme cucchiaio – ma in proporzione era quello che per un bambino piccolo è un cucchiaio che per noi invece è normale. Incominciarono a darmi delle cucchiaiate di cibo virtuale, esortandomi con entusiasmo a mangiare, mangiare per diventare grande, come si fa spesso coi bambini, invece di lasciarli mangiare come si sentono. Dopo pochi secondi mi sentii, come bambino, in uno stato di panico, di confusione, e di saturazione: e capii in prima persona come non bisogna dar da mangiare ai bambini. E capii anche che dopotutto quello che mi era capitato sul palco echeggiava blandamente anche quello che era capitato a me quando ero piccolo. Ah, dimenticavo. Tutto questo avveniva davanti a duemila persone. Ecco come Virginia Satir faceva terapia.

Assagioli aveva un altro modo ancora. Lui irradiava un grande calore umano, una gioia che solo a essergli vicino uno si sentiva già bene. Se sei in questo tipo di atmosfera, d'improvviso ti accorgi che i tuoi problemi non ci sono più o non sono così terribili come ti pareva; senti che non sei giudicato, che vai bene così come sei. Che soltanto per il fatto di essere, stai bene e sei contento. Il contenuto di quello che veniva detto aveva sì importanza, ma molto meno di quanto crediamo. Ciò che davvero contava era il rapporto fra due esseri umani, e in questo rapporto eri visto non come ti vedevi tu, ma come anima, con tutta la sua vitalità e la gioia di cui in fondo sei capace, e tutti i talenti che hai e le cose che puoi fare nella tua vita, e tutto nel contesto di un cosmo vivente. Così lavorava Assagioli.

All'estero Assagioli a un certo punto raggiunse un certo grado di notorietà, maggiore che in Italia, e varie persone volevano conoscerlo. Venne anche Lama Govinda, quando Assagioli stava passando qualche giorno a Castiglioncello. Lama Govinda aveva scritto dei libri sul buddhismo tibetano, e aveva messo a disposizione del pubblico occidentale dei saperi dimenticati di quel mondo. Assagioli e Lama Govinda erano entrambi vecchi esili e minuti con la barba bianca e l'aria di saggi. Per Lama Govinda la Toscana era una tappa in un lungo viaggio. Solo per arrivare in Italia dall'India del nord dove viveva ci aveva messo cinque mesi, perché secondo lui il viaggio aereo, annullando le distanze, genera sensazioni ingannevoli. Era venuto con sua moglie, una signora indiana simpaticissima. Li portai a vedere un po' la Toscana. In quei tempi in macchina andavo piuttosto spedito (ora sono una lumaca). A un certo punto guardai nello specchietto e vidi un Lama molto spaventato, quindi rallentai subito. Fui colpito dal fatto che anche i Lama si possono spaventare.

L'incontro con Assagioli fu teatrale. Lama Govinda saliva lentamente su uno scalone con degli amici, Assagioli lo aspettava in alto, poi incominciò a scendere per andargli incontro. Prima mi aveva domandato: "Che ne pensi, devo salutarlo alla maniera orientale, con le mani giunte, o in quella occidentale, con la stretta di mano?" Domanda legittima, visto che Lama Govinda era in realtà un tedesco trapiantato in Oriente. Gli dissi di salutarlo con le mani giunte. Arrivati all'incontro, Assagioli lo salutò nel modo orientale, ma Lama Govinda allungò la mano. Allora Assagioli fece per dargli la mano, ma Lama Govinda intanto aveva deciso di salutarlo a mani giunte. Sembrava uno strano rituale. Insomma, East meets West. Ma sembravano quasi due vecchi gemelli che si incontravano dopo molto tempo. Iniziò il colloquio, e Lama Govinda fece notare come il concetto di volontà nella psicosintesi era vicino a quello buddhista di virya, la forza interiore. A un certo punto i due chiesero di essere lasciati soli. Qualcuno mise segretamente un registratore a cassette per registrare la conversazione. Dopo un po' i due emersero radiosi, e ancora più rassomiglianti l'uno all'altro. Piccolo dettaglio: entrambi erano piuttosto sordi, soprattutto Assagioli. La loro conversazione, che era stata registrata, risultò poi essere completamente incoerente. Ma in questo dialogo fra sordi i due si erano incontrati a un altro livello, un livello ineffabile e luminoso e senza tempo, dove le parole e i concetti della mente non contano più. E, evidentemente, se la erano spassata.

Fra le varie persone che vennero a trovare Assagioli in quel periodo ci fu anche Betty Friedan, la femminista americana autrice di The Feminine Mistique. Gli incontri funzionavano così: c'era un gruppo di persone che incontravano Assagioli la mattina. Il pomeriggio invece io dovevo far fare loro degli esercizi di psicosintesi. Non mi ricordo che esercizio proposi quel giorno, ma ho ancora presente il risultato che ebbe per Betty Friedan. Disse che aveva visualizzato un meraviglioso arcobaleno: un arcobaleno che univa tutti gli uomini e tutte le donne. Nel descriverlo era radiosa, per lei era una vera scoperta. In quel periodo di violenta contrapposizione fra generi, un'idea così era molto significativa. Betty Friedan incominciò a incuriosirsi della psicosintesi. Assagioli chiese alla sua insostituibile segretaria, Ida Palombi, di darle alcuni suoi scritti. Allora io mi avvicinai a Ida e le dissi, mi raccomando, le dia qualsiasi cosa, ma non La psicologia della donna e la sua psicosintesi. Questo era un scritto di Assagioli vecchio e superato. Fra l'altro se ne usciva fuori con una frase infelice: "La donna è la regina della casa". Roba da far venire i brividi, ma era stato scritto negli anni cinquanta. Quando Ida diede gli scritti a Betty Friedan, che cosa c'era in cima al mucchio? Avete indovinato, La psicologia della donna e la sua psicosintesi. E da quel giorno Betty Friedan svanì nel nulla.

E' un peccato, perché verso la fine della sua vita Assagioli espresse alcuni concetti innovativi proprio su questo argomento. Secondo lui, ognuno di noi prima ancora di essere uomo o donna è un Sé. Insomma c'è una parte di noi che non è plasmata dal suo essere maschio o femmina. Il Sé è quella parte di noi che è senza tempo, al di là delle fluttuazioni emotive, libera da convinzioni, esente da ruoli. E non determinata dal genere. E' ciò che lo Zen chiama "la nostra mente prima di nascere".

Per me fu formativo anche l'incontro con Moshe Feldenkrais, con cui feci un corso intensivo di cinque giorni a Los Angeles. Il suo metodo corporeo è geniale: proprio come la mente si arena in modi di pensare rigidi e ripetitivi, il nostro corpo si blocca in abitudini posturali fisse, diminuendo così molte delle sue possibilità. Attraverso esercizi specifici si può imparare a percepire e muovere il corpo in maniera nuova, in modo da allargare la sua gamma di movimenti, moltiplicando in questa maniera le sue possibilità, e generando benessere. Feldenkrais però era un maestro severo. Se vedeva un allievo eseguire un esercizio in modo sbagliato, lo redarguiva e poi gli chiedeva di ripetere il suo sbaglio, chiamando gli altri a vedere quello che stava combinando: venite a vedere, ma come si può fare uno sbaglio così? La cosa era un po' buffa, ma anche imbarazzante per la vittima di turno. A un certo punto vide una donna che espirava attraverso la bocca, tenendo però le labbra quasi chiuse e forzando il respiro, quasi una pernacchia. Lui se ne accorse: ma come puoi fare una cosa simile? Mettere due parti del corpo in lotta l'una contro l'altra? Le labbra che impedivano al respiro di fuoriuscire erano una contraddizione. Alla fine delle lezioni, però, tutti si sentivano leggeri e agili, e scoprivano che vivere in un corpo può essere non una condanna, ma un piacere.

In California incontrai anche Shunrju Suzuki, il monaco Zen che aveva fondato il convento di Tassajara. Il titolo di un suo libro dice già molto: Mente Zen, mente del principiante. Il suo insegnamento è che per capirci qualcosa bisogna sempre ricominciare da capo, essere dei principianti: perché questo vuol dire avere la mente aperta. Se pensiamo, come l'esperto, di sapere già tutto, allora per noi non c'è speranza: siamo già imbalsamati. Per me questo è particolarmente vero nel mio mestiere, la psicoterapia: dove anziché sapere tutto e inserire il paziente in una diagnosi preconfezionata bisogna cominciare ogni volta da capo, perché ognuno di noi è un universo irripetibile e non paragonabile ad altri. Quando dico ai miei allievi che nel nostro lavoro siamo tutti degli improvvisatori e dobbiamo procedere a tentoni, non c'è niente che li irrita di più. Ma come, dopo tutto quello che abbiamo studiato, ci vieni a dire che non sappiamo niente? Eppure è proprio così, e non è colpa mia se siamo fatti a questa maniera.

Torniamo a Suzuki: partecipai a un suo corso di meditazione. A un certo punto la sessione era finita. Io mi alzai e uscii prima di tutti. Ma quello era un imperdonabile sbaglio di etichetta. Prima doveva uscire il Maestro, poi potevano andarsene i discepoli. Dopo qualche secondo vidi passarmi davanti Suzuki, che mi diede una sola occhiata, ma quella occhiata non me la dimenticherò mai. Era lo sguardo di un samurai sdegnato per l'offesa, ma al tempo stesso era lo sguardo divertito del saggio, che vede il mondo intero, le interazioni fra le persone, i loro giochi e i loro valori, le loro speranze e le loro sconfitte, come una illusione. Era come se mi dicesse, le regole vanno rispettate. Ma non prendiamoci troppo sul serio. Fu in quella occasione che capii che la vera caratteristica del saggio non è il proferire solenni e grandiosi insegnamenti, ma invece essere sempre in contatto con quello speciale senso dell'umorismo gentile che lo rende capace di guardare alla vita di tutti con un tranquillo distacco e col sorriso interiore di chi è libero.

A questo punto devo dire mia moglie Vivien, dopo aver letto la prima versione del mio scritto, ha detto: "Così non mi convince. Vuoi scrivere di come ognuno di noi entra in tutti gli altri e fa parte del loro essere, e non scrivi della tua famiglia, di me, dei tuoi amici, di Roberto e Neda." "Ma in quel modo diventerebbe un elenco interminabile, dovrei parlare di troppe persone!" E lei: "Così è troppo accademico". E io: " Ma quello che dici tu è scomodo, e poi è anche troppo intimo. Ho un certo riserbo a parlare di queste cose private". Ma Vivien ha la dote della quiet insistence, come la chiama lei, la tranquilla insistenza. Se non è convinta non la smuovi. "Scomodo o non scomodo, io la penso così".

Vivien è fatta a questo modo. Mette le monete nel parchimetro anche quando si sa che nessuno controlla. Se scopre che una maglietta è stata prodotta da un'azienda che non è etica, appena può la riporta, e se fai una citazione o racconti un aneddoto che non è proprio riferito nella maniera esatta, te lo fa sapere, perché stare zitti per lei sarebbe un'offesa all'onestà. Vivien non sopporta i pettegolezzi, le malignità, gli scherzi di cattivo gusto e le iperboli. Per lei ciò che è vero e giusto ha sempre la priorità, anche quando sarebbe più facile lasciar perdere o far finta di niente. Non solo. Non le basta ristabilire la verità. Vuole anche ripulire il rapporto da ogni più piccolo inquinamento. Se un negoziante la tratta male o le dà una fregatura, il giorno dopo lei torna con lo scontrino: non per protestare, ma per fare amicizia.

Nel mio caso entra in gioco anche un altro fattore. Questa critica di Vivien sul mio scritto mi ha fatto venire in mente di quando, parecchi anni fa, scrivevo il libro La forza della gentilezza. Dopo aver letto la prima stesura, Vivien mi disse: "Così non va. E' troppo freddo. Non ti scopri abbastanza. E' un trattato impersonale sulla gentilezza, non il tuo libro." Così riscrissi il libro, e quelle parole rivoluzionarono il mio modo di scrivere. Pensavo di cavarmela buttando giù due parole sulle mie idee, ma mancava il calore, la presenza. Questo non era semplicemente un buon intervento da editor. Era un aiuto a essere tutto me stesso. Ora, in questo scritto che state leggendo, stavo facendo un errore di questo genere. Portarmi a essere in contatto con tutti i miei sentimenti, e condividerli con gli altri nello scrivere e in ogni altro settore della mia esistenza: non è cosa da poco. E' una guida gentile a ritrovare il mio cuore.

All'inizio della nostra vita insieme feci a Vivien una fotografia mentre beveva il tè. La tazza era posata davanti a lei su una superficie bianca. Quella foto mi piaceva perché esprimeva il suo gusto per una perfetta semplicità, che è poi una sua caratteristica di base: la semplicità di una prosa ridotta all'essenziale, o della meditazione sul respiro, o della sonata facile di Mozart che lei suonava al pianoforte. Una cosa che ho imparato da lei è proprio questa semplicità dei gusti e delle idee.

Quando ho sposato Vivien, mi sono sentito dentro l'Australia, il profumo degli eucalipti, la bellezza dell'oceano; e anche tutto l'universo dei suoi amici e familiari ungheresi di Sydney. Appena sposati mi pareva che avesse poco, era arrivata solo con una valigetta. "Non ti preoccupare" mi disse, "fra un po' arrivano diciannove casse." Più che logico. Però quando arrivarono le casse ero un po' sotto choc. In quel momento mi resi conto che avevo sposato anche quelle diciannove casse, anche loro si specchiavano nelle sfere di Indra. Credo che con una moglie più che con chiunque altro uno si accorga di come ognuno di noi vive dentro l'altro, e quindi porta dentro di sé il suo microcosmo di persone, gusti, credenze, sentimenti, ricordi, cose, paesaggi. Qualcuno ha perfino scoperto che marito e moglie dopo molti anni finiscono per assomigliarsi fisicamente e i loro volti a poco a poco prendono l'uno le misure dell'altro. Per il fatto che lei ha fatto questo cammino con me, che è stata la mia compagna attraverso mille vicende, che assieme abbiamo generato figli, e anche libri, visto che lei ha tradotto i miei e io ho tradotto il suo, che mi ha sopportato con tutte le mie ubbìe, che percorriamo passo passo l'odissea che è ogni nostra giornata, provo per lei il mio sentimento fra tutti preferito: la gratitudine. E' un sentimento che non mi lascia mai, è come un luogo bello e protetto a cui posso ritornare quando voglio, perfino quando sono imbufalito: ci metto solo un po' più di tempo.

Intendiamoci, continuo a pensare che il matrimonio è uno sport pericoloso. A me è andata bene, ma non oso pensare come sarebbe andata in caso contrario. Insomma, il mio consiglio a chi si vuole sposare è, fallo solo se non ne puoi fare a meno. Fallo solo se (per usare la formula giuridica) sei convinto "al di là di ogni ragionevole dubbio".

Dei nostri figli Emilio e Jonathan non parlo qui, perché è una tale incredibile rivoluzione che se ne incominciassi a parlare non finirei più, dovrei scrivere un libro, e infatti l'ho scritto: I bambini ci insegnano. Dirò solo che qualche volta mi hanno dato del filo da torcere, perché tutti e due hanno dei criteri di giudizio piuttosto impegnativi, ma anche qui mi è andata proprio bene. Una volta ho detto a Jonathan, quando era piccolo: "Come figlio ti trovo molto severo". Risposta: "Un giorno mi ringrazierai".

Sugli amici di tutta la vita ci sarebbe troppo da dire e finirei di ometterne di importanti. Parlerò invece solo di quelli che ho conosciuto durante il periodo forse più formativo, dal '69 al '74, epoca della mia didattica con Assagioli. Una che ha avuto un grande importanza è stata Diana Whitmore, la persona da cui ho imparato più psicosintesi dopo Assagioli. Abbiamo fatto centinaia di seminari, e costruendoli assieme, parlando delle varie idee e teniche, e poi vedendola al lavoro, come intuiva in un lampo una persona e le diceva proprio la parola che la faceva sciogliere, ho fatto una vera e propria seconda didattica. Diana è una persona peculiare. Non ti lascia mai adagiare nei tuoi schemi e nelle tue abitudini, e non appena diventi un po' troppo solenne e troppo sicuro di te, ti prende in giro. Aveva un'abitudine tremenda. A volte quando facevamo un seminario assieme e io facevo un discorso magari un po' troppo altisonante, scoppiava fragorosamente a ridere. Poi smetteva, ma tutti vedevano che si tratteneva a stento, e aspettavano una nuova esplosione. Questo mi faceva piombare in un'imbarazzo totale. Non sapevo più cosa dire, perché qualsiasi cosa avessi detto la solennità dei miei insegnamenti era già andata a farsi benedire. Diana raccontava che una volta aveva visualizzato il vecchio saggio (un esercizio della psicosintesi). Era andata da lui vestita di bianco come una vestale, ma il vecchio saggio aveva una cesta piena di fragole e gliele gettava addosso macchiando il suo sacro vestito. Certe volte avevo l'impressione che Diana facesse così con me.

Diana ha avuto un figlio, Jason, che con Karen e i miei figli, è stato fra i bambini più importanti della mia vita. Lo portavo spesso a cavalcioni sulle spalle quando era piccolo, e a lui piaceva pasticciare i miei radi capelli. Un giorno si parlava di come i bambini di pochi mesi sono spesso pelati come lo era stato anche lui. Lui si azzittì. Sentivo che pensava, pensava. Dopo qualche minuto mi chiese: "Are you a baby?" ("Sei un bambino?") Un sillogismo perfetto. E in quel momento capii un poco di come i bambini piccoli vedono il mondo: come un posto incantato da esplorare. Giocavamo spesso a un gioco che chiamavamo little man. Questo omino era costituito semplicemente da due mie dita, indice e medio, che camminavano, saltavano, parlavano si arrabbiavano, insomma erano in tutto e per tutto un omino. La cosa andò avanti per un po', ma una notte Jason andò a svegliare la mamma e le disse che aveva fatto una grande scoperta: "The little man is just fingers!" "L'omino è solo dita!" Un esempio struggente di come i bambini scendono dal mondo dell'immaginazione e della magia a quello della realtà. I bambini sono degli esseri straordinari. Capisco cosa voleva dire il dottor Seuss quando affermava che gli adulti sono dei bambini usati.

Fra i miei amici più formativi ci sono Alberto (Alberti), Andrea (Bocconi), e Massimo (Rosselli), con cui ho condiviso lo studio della psicosintesi e la collaborazione con Assagioli. Ci trovavamo certe volte la sera per farci intervisione sui casi. Alberto è una di quelle persone che dice qualcosa che ti pare che non abbia molto senso, poi anni dopo ti ritorna in mente e ti rendi conto che aveva ragione lui. Con lui poi mi trovai a collaborare per anni nel Centro Studi di Psicosintesi "R.Assagioli" che avevamo fondato assieme dopo che avevamo lasciato l'Istituto di Psicosintesi (nel 2001 ritornai alla base). Tutta quella fu una grande esperienza di come costruire un progetto, di come organizzarlo, di come collaborare e presentarsi al mondo. La tesi di Alberto era che bisogna andare alla velocità del più lento, la mia invece era che bisogna correre al ritmo del più veloce (aveva ragione Alberto). A lui hanno dato sempre fastidio le esagerazioni di qualsiasi tipo, prima fra tutte l'esaltazione spirituale. Per lui la vera esperienza spirituale è pacata, mai esaltata. Col fiuto dello psichiatra si accorge subito di scompensi e debolezze occulte. Tanto per dire: nella psicosintesi avevamo l'esercizio dell'ascesa, a simboleggiare l'ascesa verso uno stato di coscienza superiore. E cosa fa Alberto? Propone l'esercizio della discesa: bisogna tornare coi piedi per terra. Una volta dovevamo presentare al pubblico il nostro Centro appena nato. Io scrissi un articolo intitolato La psicosintesi per la crescita o qualcosa del genere. Alberto disse: "Aggiugi al titolo e per l'armonia". Lui pensava che la crescita certe volte è come quella della rana nel racconto di Esopo, che cresce e si gonfia così tanto e si riempie così tanto di sé che a un certo punto scoppia. L'inflazione, la follia. "Ma l'armonia è già inclusa nel concetto di crescita" "No, metticela lo stesso, non si sa mai". Misi anche l'armonia.

Andrea l'ho incontrato al servizio militare, nella squadra di scherma. Rimase così interessato alla psicosintesi che andò a incontrare Assagioli e poi a studiare con lui. A quel tempo si era appena laureato in legge, e domandò ad Assagioli se doveva fare l'avvocato. Lui gli rispose semplicemente "no", e così fu. Il giorno in cui l'ho visto più felice è stato forse di ritorno dall' India, dove era andato per la prima volta. Per lui era un viaggio in oriente come lo intende Herman Hesse, cioè un viaggio nello spirito, ma al tempo stesso un tuffo nel mondo indiano, con cui lui ha sempre sentito un' inestinguibile affinità. Altrove (in una prefazione a un suo libro) ho scritto della mentalità dello schermidore (per lui un elemento centrale, per me un fattore meno importante). Qui voglio aggiungere un punto essenziale. Uno schermidore deve vivere nel presente e saper cogliere l'attimo decisivo. Se attacca un millisecondo prima oppure dopo, fallisce. Se coglie il momento, ha successo. Questo è il kairos, il momento giusto. Nella Grecia antica era rappresentato come un fanciullo che poggia su un piede solo sopra una sfera, ha un ciuffo di capelli davanti, ma dietro è pelato: significa che se non lo acchiappi subito, non lo puoi poi prendere un attimo dopo quando è già fuggito. Credo che questo sia un insegnamento cruciale nell'arte della scherma, che si estende poi a tutta la vita. Andrea ha sempre qualcosa di bello da menzionare o farmi vedere. Guai a toccargli Lucca, la sua città. Una volta mi fece vedere la torre di Guinigi, come se fosse la sua, con quell'orgoglio: è una torre stupefacente, perché proprio in cima alla torre c'è un grande albero. Bellissima.

Massimo Rosselli è forse quello che delle interazione fra corpo emozioni e anima ne sa più di tutti. Anche se l'ho sentito varie volte in veste formale, quello che ho imparato da lui mi è arrivato più in maniera impercettibile, da qualche parola buttata lì, da un'occhiata, dal tono di voce. Per lui il Sé spirituale è un Sé che non vive in una luce astratta e fuori da ogni dimensione, ma è incarnato nei processi elettrochimici del cervello, nella digestione e nei muscoli e nel respiro e nel sesso e in ogni battito del cuore. In che modo la gioia, o la rabbia, o l'ansia, diventano processi fisici? In che modo le più alte intuizioni spirituali sono parte delle nostre cellule? E in che modo il cosmo intero si rispecchia nel nostro organismo? Da Massimo ho anche imparato il rispetto della esattezza istituzionale, del seguire le norme fino alla pignoleria. Certo, conta anche questa, perché siamo in un gioco, e bisogna seguire le regole. Però poi Massimo d'improvviso fa quel che gli pare a lui, come quando la polizia l'ha fermato quando andava contromano su El Camino Real, l'arteria principale della California del Nord. Lo portarono davanti al giudice e non volevano più lasciarlo tornare in Italia. Come faccia a conciliare in se stesso il ragazzaccio ribelle col personaggio accademico non l'ho mai capito. Ma ci riesce.

Fra i colleghi dei primi tempi vorrei includere anche Sascha, una persona che più di tutte esprime il perfetto equilibrio fra qualità più dolci e gentili con quelle più forti e decise. Insomma Sascha si veste con grande raffinatezza e sciccheria, e arreda la sua casa altrettanto bene di come si veste. Si circonda di cuori – in forma di cioccolatini, cuscini, quadri, tappeti, scatoline, cristalli, cornici di fotografie, cartoline, tutto a forma di cuore, perché per lei il cuore è la chiave di tutto. Però se le parli di qualcosa di tecnico tipo fotografia o computer, scopri che ne sa parecchio e che si muove a suo agio anche negli ambiti freddi e impersonali della tecnica. Il ricordo più bello che ho di lei è quando ho capito al meglio l'essenza di ciò che è aiutare. Stavo organizzando un congresso intenazionale in cui, pur con l'aiuto di bravi collaboratori, cercavo di fare quasi tutto da solo, per il semplice fatto che sono incapace di delegare. C'era gente che veniva da ventiquattro paesi del mondo, e io nel frattempo per complicare la situazione mi ero anche sposato da poco. Ero stralunato. Molte persone volonterose mi venivano a chiedere: c'è qualcosa che posso fare? Come ti posso aiutare? Ma io non sapevo che cosa rispondere, quelle domande mi stancavano e mi facevano perdere tempo. Sascha invece non chiese nulla. Lo fece. Si guardò in giro e dove vedeva ciò che poteva essere fatto, lo faceva. Attaccare le etichette, fatto. Disporre gli opuscoli sul tavolo, fatto. Scivere i nomi dei relatori, fatto. Ecco l'aiuto perfetto: osservare, intuire dove c'è bisogno, fare ciò che va fatto: per lo più in silenzio.

Fra le persone che in qualche modo fanno parte della mia storia voglio menzionare anche il Dalai Lama. Non l'ho mai incontrato di persona, a parte vederlo parlare a un paio di congressi. Ma gli sono molto grato e lo considero un esempio. Anni fa, quando avevo finito di scrivere il mio libro La forza della gentilezza, gli chiesi se era disposto a scrivere una prefazione. Il suo segretario mi rispose immediatamente, dicendomi di mandare il testo. Una commissione lo approvò, e lo passò al Dalai Lama. Intanto io avevo preparato un indirizzo email specifico proprio per ricevere la prefazione. Ogni giorno andavo a controllare. Ogni giorno una scritta diceva: "Hai 0 email nuove". Ma un bel giorno, prima di portare i bambini a scuola, controllai l'email. Mi ricordo bene: era una mattina molto bella, fuori si vedeva la campagna toscana avvolta in una lieve nebbiolina anche se era maggio. Lo schermo diceva :"Hai 1 email nuova". Era la prefazione. Ricevere la prefazione del Dalai Lama a un proprio libro è un'esperienza memorabile, soprattutto quando quella prefazione non è costituita da due righe di generico assenso, ma è un testo circostanziato e originale. Così il Dalai Lama mi aveva dato una bellissima lezione di gentilezza e di semplicità. Aveva letto il testo di una persona a lui sconosciuta, e gli aveva dedicato del tempo per scrivere una prefazione molto bella. Un perfetto esempio del suo motto: "La mia religione è la gentilezza" – un'espressione del Dalai Lama che mi ha sempre colpito. E' una di quelle affermazioni a cui ritornare ogni tanto, soprattutto quando non si sa più che pesci pigliare.

La musica è sempre stata cruciale nella mia vita. Credo in ciò che dice Beethoven: "La musica è una rivelazione più alta di qualsiasi saggezza e qualsiasi filosofia". La musica ci aiuta a conoscere realtà che altrimenti mai potremmo concepire. E' anche vero che sono sempre stato uno di quei padri stucchevoli che pensa che i suoi figli abbiano una grande talento musicale. Quindi mi è capitato di frequentare il mondo di musicisti. Emilio, il mio primo figlio, ha studiato il violino per parecchio tempo, poi lo ha lasciato perché gli studi di matematica lo assorbivano troppo. Da piccolo aveva una sensibilità straordinaria alla qualità del suono. Una volta si lamentava del fatto che il suo violino faceva dei suoni che non lo convincevano. Il suo maestro lo esamina a fondo, va tutto bene; ma Emilio continua a non essere convinto; alla fine scopriamo che una minuscola briciola di pane era finita dentro il violino, e questo cambiava la qualità del suono. Intanto il violino era diventato un personaggio di casa, un componente della famiglia, e doveva convivere con i panini, e le briciole finivano per entrare dentro.

Un'altra persona che ha incrociato il mio cammino in questi ultimi anni, e dalla quale ho imparato moltissimo, è Giovanni Carmassi, concertista e maestro di pianoforte. Io non sono un musicista, anche se la musica classica mi ha sempre appassionato. Ma datemi in mano uno spartito, e per me è come avere in mano un testo cinese. E' vero che da piccolo avevo studiato il pianoforte, ma l'esito era stato dubbio. Mio figlio Jonathan invece si è diplomato al Conservatorio, dove lo ha formato proprio Carmassi, un maestro che io cosidero eccezionale, oltre che persona simpaticissima e originale. A un certo punto gli ho proposto di scrivere un libro intervista, in cui lo interrogavo sulle sue idee e i suoi metodi didattici e la sua concezione della musica. Per me è stato un privilegio: io, non musicista, sono stato ammesso nel mondo misterioso dei pianisti, nelle stanze segrete dove si prepara un pezzo. Secondo Carmassi un pezzo musicale non va solo studiato, ma deve essere ricreato interiormente, proprio come gli attori preparano un "fantasma", un'idea del personaggio che vogliono interpretare. Una delle cose in cui il maestro Carmassi riesce meglio secondo me è insegnare agli allievi come estrarre una varietà impensabile di suoni dal pianoforte: altro che un tasto = un suono: il pianoforte racchiude in sé tutti i suoni dell'orchestra. Scrivere un libro col maestro mi ha aiutato ad approfondire il mio rapporto con la musica in maniere che non avrei mai sognato. Attraverso i concerti suoi e dei suoi allievi ho scoperto che la musica è un paesaggio incantato, pieno di sorprese inesauribili e di magie inespicabili.

A proposito di musica, c'era un altro incontro che avevo fatto in passato, ma un incontro molto diverso, perché fatto soprattutto per interposta persona: il grande violinista Yehudi Menuhin, il quale era un amico di Laura, e lei spesso ne parlava con ammirazione e affetto. Lo vedeva come un altissimo esempio di umanità, di come l'arte diventa un atteggiamento etico e una capacità di essere universale. "Fa il violinista, ma avrebbe potuto fare qualsiasi altra cosa, e farla bene" le piaceva dire di lui. Lo incontrai anche qualche volta di persona. Una sera, in Svizzera andai con Laura a un concerto in cui un talentuoso violocellista tredicenne suonava un concerto di Tartini. A questo punto cedo alla tentazione di raccontare un episodio che non ha nulla a che fare con la mia formazione, ma è buffo e curioso e quindi lo racconto lo stesso. Al concerto fra gli spettatori c'era anche una signora elegante; vedendola pensai, quel volto non mi è nuovo, e infatti era Margaret Thatcher, premier del Regno Unito, e da poco dimissionaria. Thatcher aveva sempre sostenuto l'opera di Menuhin nel promuovere talenti musicali. A quel concerto venne sola, ma accompagnata da una scorta. E dove si era seduta? Per combinazione, proprio davanti a me. A un certo punto, durante l'adagio, plomf! le scivola la borsetta e mi cade sul piede. Mi chino per raccoglierla e dargliela, ma la scorta, seduta accanto, un individuo lesto e legnoso, è più veloce di me, e mi dà uno sguardo cattivo come per dire, non ti intromettere. La borsa mi aveva fatto piuttosto male, e se non ci fosse stato il mio piede sarebbe diventato un rumoroso accompagnamento al concerto di Tartini: era pesantissima. Da allora ogni tanto mi chiedo, ma che cosa c'era di così pesante in quella borsa? Una mitraglietta per signora? Una bottiglia di whisky? Un aggeggio per attivare missili nucleari come si vede nei film? Insomma diventa una specie di test proiettivo, provateci anche voi.

I nostri incontri e i nostri ricordi sono curiosi. A volte sono i dettagli senza importanza, gli eventi secondari, magari episodi inaspettati e talvolta un po' strampalati, che ci colpiscono di più, e che magari ci rivelano un lato inaspettato di una persona. Ed è proprio quel dettaglio che magari ci porta a capire un aspetto centrale della nostra esistenza. Per vari anni diressi a Firenze il Centro Studi "R.Assagioli", che avevo fondato assieme ad alcuni amici, e che svolgeva attività culturali e formative. Quindi ebbe occasione di invitare a Firenze personaggi di rilievo che avevano dato un contributo significativo alla cultura. Fra questi ci fu Elémire Zolla. Lui era un intellettuale anomalo e unico nel panorama intellettuale italiano. Era interessato soprattutto allle tradizioni sapienziali antiche, e aveva una cultura immensa. Durante i miei anni di università fui colpito dal suo libro Eclissi dell’intellettuale, e anche da una bellissima antologia, I mistici, in cui erano rappresentati grandi mistici di ogni tempo. Possiedo ancora questo grosso volume - più di millecinquecento sottilissime pagine - che è un magnifico tributo alle parole degli illuminati di tutte le epoche. Lo invitai a Firenze per una conferenza. Lui venne, e dopo la conferenza andammo a cena con la moglie e altre persone. Mi pareva piuttosto stanco, e anche la conferenza non era stata all'altezza delle aspettative. A un certo punto, non so come comparve, un gatto. Zolla si trasformò: "Micio! Micino!" disse, era entusiasta, il gatto aveva acceso la sua anima, lui era diventato quasi bambino. Che strano, eppure così è la nostra natura, abbiamo tutti i nostri aspetti impensabili e sorprendenti. Come un grande intellettuale di immensa cultura che si entusiasma d'improvviso per un micio capitato lì per caso (comunque lui aveva scritto un libro proprio sullo "stupore infantile"). Un esempio, anche questo, di quanto variegato e molteplice possa essere lo spirito umano.

Fu proprio Zolla che mi suggerì di mettere per iscritto i miei ricordi di incontri, e testimoniare un'epoca piena di fermenti. A questo punto però mi viene un dubbio. Ho menzionato parecchie persone famose. Non vorrei che questa fosse scambiata per l'atroce pratica che in America viene chiamata name dropping, parlare di personaggi famosi per approfittare vampirescamente della loro fama. Ma se ho incontrato persone straordinarie non ho alcun merito. Sono stato fortunato, tutto lì. Ciò che a me sta a cuore è parlare di ciò che ho imparato. Mi fanno un po' ridere i politici che in certi dibattiti televisivi o dichiarazioni pubbliche rivolgendosi all'avversario con un certo dignitoso sussiego dicono: "da lei non accetto lezioni di…(giustizia, democrazia, libertà, ecc.)", come se accettare una lezione fosse un'ignominia anziché una fortuna. Anni fa quando uscì il mio libro I bambini ci insegnano una famosa psicanalista ne fece una recensione, stroncandolo. Fra l'altro diceva: non si devono mettere i bambini in cattedra. Ma per me imparare da qualcuno non è metterlo in cattedra. E' ricevere dentro di me ciò che quella persona è la sola al mondo a conoscere o a essere, per lo meno in quel suo modo peculiare e unico. Imparare dagli altri è un modo di partecipare alla molteplicità e ricchezza del mondo.

Per finire voglio ricordare Roberto e Neda, due persone che mi sono molto care. Nei tredici anni che abbiamo passato in campagna ci saremmo persi, perché era proprio campagna vera, e a noi che venivamo dalla città ora che eravamo così vicini alla natura che quasi ci sembrava di stare dai lupi. Roberto e Neda in campagna c'erano vissuti da sempre, e tutti e due ci fecero da guida. Senza di loro ci saremmo persi. Tutti e due del Casentino. Neda ci raccontava di come, quando lei era giovane, in famiglia si faceva il pane in un grande forno il lunedì e doveva durare fino alla domenica, altro da mangiare ce n'era pochissimo o non c'era. Quando la conoscemmo lei faceva la pomarola migliore di tutte, di quelle che si sarebbe dovuto vendere nei negozi, e allora avrebbe spopolato. Il perché era anche dovuto ai pomodori di Roberto, coltivati in un orto che sembrava una cattedrale. Domandai a Roberto chi gli aveva insegnato a creare un orto così bello e così produttivo. "Me l'ha insegnato mio padre" disse, "E chi lo aveva insegnato a suo padre?" "Suo padre". E così via. Probabilmente si poteva risalire all'epoca degli antichi Romani. Roberto, da buon toscano, era preciso con le parole, molto più di me, anche se lui di accademico ha ben poco. Anziché "sull'orlo del campo" diceva "in proda al balzo". Se io dicevo "cadere" anziché "ruzzolare" mi correggeva. Se dicevo "polli" anziché "galline" mi guardava in modo strano. Se dicevo "porta" anzichè "uscio" non capiva, o faceva finta di non capire.

Quando dico che gli altri vivono dentro di noi, intendo dire l'intero microcosmo, e quindi, per esempio, Roberto non è solo un tizio che ho incontrato, tante e grazie buonasera, ma vive dentro in me il suo prendersi cura degli ulivi nelle fantastiche colline vicino a Reggello dove stavamo in quei tempi, il vedere a poco a poco i pomodori nell'orto diventare rosso fuoco sotto il sole di agosto, il preoccuparsi perché quei nuvoloni non promettono nulla di buono, lo zappare la terra e dissodarla e fertilizzarla e vedere come stanno crescendo le lattughe e i finocchi, il vivere in un modo che è ancora ciclico, quando a ottobre si fa la vendemmia e a novembre si raccolgono le olive e a dicembre finisce l'orto; e a preparare quell'elisir divino che è l'olio di quella regione, così rustico e raffinato assieme. Tutto questo microcosmo si traferisce (io credo) dentro di me e si riflette in mille altri microcosmi, e il mio microcosmo, non so bene e in quale misura, si trasferisce dentro Roberto e lì continua la sua vita. Così immedesimati gli uni con gli altri, i destini di ognuno che si intrecciano con quelli degli altri come dettagli di un immenso arazzo di cui ignoriamo in gran parte il disegno, a che cosa ci serve competere, e guardarci in cagnesco, e farci la guerra, e diffondere pettegolezzi maligni, e cercare di prevalere gli uni sugli altri?

A nulla. Proprio a nulla.